Grazie Presidente, Onorevoli colleghi!
Il tema del nucleare ha sempre destato molta attenzione e preoccupazione sia nelle istituzioni che nella popolazione.
In questa sede occorre ricordare che in Italia, la produzione di energia elettrica da fonte nucleare risale ai primi anni Sessanta, e che nel 1966 il nostro Paese figurava come il terzo produttore al mondo, dopo gli Stati Uniti d’America e l’Inghilterra.
In definitiva, le centrali elettro-nucleari - tutte mono-reattore -, completate ed entrate in funzione in Italia, furono quella di “Borgo Sabotino" a Latina, "Sessa Aurunca" a Garigliano nel Casertano, “Trino” nel Vercellese e “Caorso" nel Piacentino.
La sicurezza degli impianti nucleari divenne una preoccupazione crescente sin dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso, sulla scia dell'incidente nucleare del 1979 di “Three Mile Island” in Pennsylvania, tanto che l'inizio dell'esercizio commerciale dell'impianto di Caorso nel Piacentino venne posticipato al fine di provvedere ad alcuni aggiornamenti ai sistemi di sicurezza.
Nel 1982 l'impianto di Sessa Aurunca nel Casertano venne fermato per un guasto e, a seguito di valutazioni sull’anti economicità delle riparazioni, venne spento. Il 6 gennaio del 1982 ad Avetrana si svolse la prima grande manifestazione contro il nucleare. In quegli anni, infatti, il piano energetico nazionale aveva previsto la costruzione in Puglia di due fonti energetiche: a Brindisi la mega centrale a carbone e nel Tarantino, a Manduria (ma più vicino ad Avetrana), una centrale nucleare. Contro tale ipotesi si schierarono subito tutte le forze politiche di Avetrana e i movimenti ambientalisti della provincia.
I politici manduriani però, si presentarono divisi e con molti dubbi rispetto alla scelta del nucleare. Se a livello locale la politica si divise, a livello regionale e nazionale, seppur con sfumature diverse, i partiti espressero giudizi generalmente positivi sul nucleare.
I sindacalisti, allora favorevoli al nucleare, ignorando i rischi ambientali rivendicarono esclusivamente posti di lavoro nelle centrali solo per i cittadini locali. Rivendicare lavoro dove non c’è sicurezza né tutela ambientale è un terribile leit-motive che sembra sussistere ancora oggi, anche se in altre vertenze. Comunque, grazie a quella mobilitazione, e non solo quella, la centrale non venne mai costruita.
Il disastroso incidente di ?ernobyl' del 1986 svegliò ulteriormente le coscienze degli italiani e portò a indire l'anno successivo tre referendum nazionali sul settore elettro nucleare. In tale consultazione popolare circa l'80% dei votanti si espresse a favore delle istanze portate avanti dai promotori che, seppur non prevedessero espressamente la chiusura delle centrali nucleari, hanno rappresentato comunque un segnale politico forte e chiaro, indicatore di una chiara volontà popolare contro questo tipo di produzione energetica, altamente rischiosa e insostenibile.
A seguito di questo referendum il Governo Italiano decise di fermare l’impianto di Latina e nel 1990 venne presa anche la decisione definitiva di disattivare gli impianti di Trino e Caorso. Sebbene quella fu una vittoria ambientalista su tutti i fronti, che fece tirare un sospiro di sollievo agli italiani, la partita sul nucleare non si concluse. L’incubo nucleare, infatti, ritornò circa 20 anni dopo, con il Governo Berlusconi IV, durante il quale vennero emanate alcune norme per favorire la produzione di energia elettrica nucleare in Italia, infatti l’allora ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, dichiarò di voler costruire dieci nuovi reattori per coprire il 25% del fabbisogno nazionale.
L’allora AD di Enel Fulvio Conti dichiarò inoltre che, per poter rassicurare gli investitori che avrebbero anticipato i capitali utili, sarebbe stata necessaria “una soglia minima garantita” nelle tariffe di vendita dell'energia elettrica analoga ai prezzi incentivati, cosiddetti CIP6 pagati nelle bollette.
Il 9 aprile 2010 il partito politico Italia dei Valori presentò una proposta di referendum sul nuovo programma nucleare italiano. Da ricordare che i sostenitori del nucleare non erano soltanto al Governo. Infatti il 27 luglio 2010 nacque il Forum Nucleare Italiano, favorevole alla ripresa del dibattito pubblico sullo sviluppo dell'energia nucleare in Italia, il primo presidente fu Chicco Testa, oggi assiduo sostenitore degli inceneritori.
I 19 soci fondatori erano diverse aziende, associazioni d'impresa, sindacati e società di consulenza, i cui campi di attività e ricerca riguardano lo sviluppo dell'energia nucleare per uso pacifico: Alstom Power, Ansaldo Nucleare, Areva, Confindustria, E.ON Italia, EDF, Edison, Enel, Federprogetti, FLAEI-CISL, GDF Suez, SOGIN, StratinvestRu Energy, Techint, Technip, Tecnimont, Terna, UILCEM e Westinghouse.
Per il secondo semestre 2010, il budget del Forum Nucleare Italiano fu di sette milioni di euro, la sua prima campagna pubblicitaria venne giudicata una Comunicazione commerciale ingannevole, ai sensi del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale. Di contro ci fu una grandissima mobilitazione popolare, essa si aggiunse in qualità di coro d’indignazione e protesta civile contro il nucleare a quella sui referendum promossi dal Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua contro le norme pro privatizzazione del servizio idrico integrato.
L’11 marzo 2011 in Giappone, a seguito di un importante terremoto e del conseguente Tzunami, un nuovo e spaventoso incidente nucleare scoppiò a Fukushima. L’incidente venne classificato al livello 7 della scala INES, ossia la scala internazionale degli eventi nucleari e radiologici: si trattò di un evento catastrofico, esattamente come quello di ?ernobyl’. Di fronte a questo nuovo disastro, il Governo Berlusconi provò con una serie di modifiche legislative a rimandare la localizzazione delle centrali nucleari in Italia, in vista di nuove evidenze scientifiche sulla sicurezza del nucleare.
Taluni commentatori dichiararono che quello fu un maldestro tentativo da parte del Governo di centrodestra con il fine di disinnescare il referendum, tuttavia la Corte di Cassazione, il 1º giugno 2011, decise di confermare ugualmente la consultazione referendaria, formulando però il quesito sulla nuova proposta normativa. L’11 giugno 2011, con un quorum di circa il 54% di votanti e una maggioranza di oltre il 94%, le norme inerenti il ritorno del nucleare in Italia vennero abrogate, determinando quindi la chiusura definitiva del nuovo programma nucleare per il nostro Paese: un risultato di cui vado particolarmente orgoglioso essendomi speso in prima persona per arrivare al successo referendario.
Chiuso con un grande sospiro di sollievo il capitolo delle centrali da costruire, rimane tuttora irrisolto il problema del “decommissioning”, ossia lo smantellamento delle vecchie centrali nucleari e lo smaltimento dei relativi rifiuti radioattivi in esse contenuti, ossia le scorie prodotte oltre 30 anni fa dalle stesse centrali! Questo perché a quei rifiuti radioattivi occorrono centinaia di anni per ridurre e perdere la loro pericolosità. Fate attenzione: lo smaltimento delle scorie nucleari è sempre stato uno tra gli argomenti che i favorevoli al nucleare hanno evitato di affrontare, in quanto è proprio su questo punto che il nucleare si rivela anti economico e decisamente pericoloso. Un’eredità frutto di scelte sbagliate del passato che ora dobbiamo affrontare in modo determinato e condiviso con i territori, con l’obiettivo non solo di volgere a un corretto e sicuro stoccaggio dei rifiuti ma anche di mettere in sicurezza i numerosi siti che attualmente ospitano i rifiuti radioattivi.
Grazie allo stop che i cittadini italiani hanno decretato per ben due volte sulla scelta di continuare a utilizzare le centrali nucleari, l’Italia ha avuto una produzione di scorie notevolmente inferiori rispetto ai Paesi che invece hanno scelto di continuare a impiegare l’energia nucleare. Ad esempio in Francia il deposito di superficie di La Manche è stato riempito, raggiungendo così la fase di chiusura nel 1994 dopo decine di anni di operatività, con circa 500 mila metri cubi di rifiuti a bassa attività. L’attiguo deposito ospita i rifiuti a molto bassa attività in apposite tranche e dal 1992 si è aggiunto il deposito de L’Aube progettato per ospitare 1 milione di metri cubi di rifiuti della stessa categoria.
Oltre alle scorie delle centrali nucleari, occorre stoccare in maniera definitiva anche quelle che vengono prodotte dal settore della medicina nucleare nelle applicazioni diagnostiche, nelle applicazioni terapeutiche e nelle attività di ricerca in medicina nucleare, ma anche quelle utilizzate in campo industriale nella gammagrafia industriale, nell’irraggiamento e nella radiometria, dove l’impiego della radioattività avviene principalmente attraverso le sorgenti sigillate.
Lo stoccaggio dei rifiuti a bassa e media attività, nonché la gestione di quelli ad alta radioattività, non creano problemi solo dal punto di vista ambientale ma sono anche causa di ingenti costi che attualmente vengono scaricati sulle bollette elettriche che pagano i cittadini italiani attraverso la voce “oneri di sistema”, in cui è prevista anche una compensazione economica per i territori che ospitano i vari siti temporanei che, ribadisco, non sono adatti a uno stoccaggio definitivo. Per questo dal 2012 al 2016 sono stati erogati circa 1,7 miliardi di euro a Sogin che ha appunto il compito di eseguire il decommissioning, ma fino a quando i rifiuti rimarranno nei vari siti sparsi per l’Italia non potrà mai essere conclusa questa importante e delicata fase.
Né i depositi temporanei né i siti che li ospitano sono idonei alla sistemazione definitiva dei rifiuti radioattivi. Infatti i depositi temporanei presenti nelle installazioni nucleari italiane attualmente in fase di smantellamento sono strutture con una vita di progetto di circa 50 anni. In Italia i centri che producono e/o detengono rifiuti radioattivi sono 19.
Per volume e livello di radioattività dei rifiuti prodotti, i principali centri sono i siti nucleari in fase di smantellamento: le quattro centrali nucleari di Trino (Vercelli), Caorso (Piacenza), Latina e Garigliano (Caserta), l’impianto Fabbricazioni Nucleari di Bosco Marengo (Alessandria) e i tre impianti di ricerca sul ciclo del combustibile di Saluggia (Vercelli), Casaccia (Roma) e Rotondella (Matera). Queste installazioni, insieme al reattore ISPRA-1 situato nel complesso del Centro Comune di Ricerca (CCR) della Commissione Europea di Ispra (Varese), sono state affidate a Sogin che ne cura il loro decommissioning e gestisce quindi circa 15.000 metri cubi di rifiuti radioattivi a bassa e media attività.
Sette centri di ricerca nucleare (ENEA Casaccia, CCR Ispra, Deposito Avogadro, LivaNova, CESNEF -Centro Energia e Studi Nucleari Enrico Fermi- Università di Pavia, Università di Palermo), 3 centri del Servizio Integrato in esercizio (Nucleco, Campoverde, Protex), 1 centro del Servizio Integrato non più attivo (Cemerad) a Statte in provincia di Taranto, che ospita ancora fusti radioattivi e non radioattivi, attendono di essere trasferiti dalla Sogin.
In particolare, secondo l’inventario nazionale dei rifiuti radioattivi dell’ISIN, al 2018 in termini di attività, è stoccata in Piemonte la maggiore quantità di rifiuti radioattivi a livello nazionale, circa il 73,53%, in Campania il 12,3%, in Basilicata 8,86%, in Lombardia il 3,3%, Lazio 1,89% e in Puglia lo 0,001%.
In termini di attività di combustibile nucleare irraggiato il Piemonte ne detiene l’83,78%, la Lombardia l’11,87%, la Basilicata il 4,23% e il Lazio lo 0,12%. Significativi, per la loro numerosità sul territorio nazionale, sono i centri di medicina nucleare, fra cui gli ospedali. Queste strutture trattengono la maggior parte dei rifiuti radioattivi che producono fino al loro completo decadimento, per poi smaltirli come rifiuti convenzionali. La restante parte viene conferita agli operatori del Servizio Integrato, al sistema di raccolta e gestione dei rifiuti radioattivi sanitari e industriali, che provvedono al loro stoccaggio nei loro depositi temporanei in attesa, previo trattamento e condizionamento del conferimento al Deposito Nazionale.
Mantenere i rifiuti radioattivi in queste strutture non solo determina un costo spropositato scaricato sulle bollette elettriche dei cittadini ma rappresenta anche un rischio ambientale soggetto agli eventi meteo-climatici e sismici.
Ad esempio, in occasione dell’alluvione del Po del 2000 che causò anche l’esondazione della Dora Baltea, l’acqua straripante dal fiume arrivò ad allagare i siti nucleari nel Vercellese. Il Nobel per la fisica Carlo Rubbia, all’epoca presidente dell’Enea parlò di “catastrofe planetaria sfiorata”, nel 1994 fu la Centrale di Trino a essere danneggiata da un’altra alluvione.
Desta preoccupazione nella popolazione l’accertamento dell’inquinamento di sostanze cancerogene delle falde a Rotondella dove è presente l’Itrec, per cui diverse Conferenze di Servizi stanno cercando di individuare la sorgente della contaminazione.
Per tutti questi motivi occorre trovare il prima possibile una soluzione definitiva ai rifiuti radioattivi.
Non è la prima volta che l’Italia affronta il problema del deposito di rifiuti radioattivi. Ci aveva provato nel 2003 il Governo di centrodestra con il decreto legge 314/2003, il quale imponeva senza alcuna consultazione con gli Enti locali e con la popolazione, il placet al deposito geologico per le scorie nucleari nel comune costiero di Scanzano Jonico, in provincia di Matera.
Il dl 314/2003 viene alla luce durante una riunione del Consiglio dei Ministri, nella notte tra il 12 e il 13 novembre. La sua è una concezione che evidentemente dovrebbe essere immacolata, dato che non ne esiste traccia nell’ordine del giorno. In quanto decreto legge, la paternità ufficiale dovrebbe essere attribuita all’allora Presidente della Repubblica Ciampi, ma dato che egli al momento si trovava all’estero per affari di Stato, fu l’allora Presidente del Senato Marcello Pera a farne le veci, controfirmando il documento. Mentre il Consiglio dei Ministri lavorava sul decreto, il popolo italiano viveva il lutto dei diciannove carabinieri morti in Iraq nell’attacco suicidio di Nassiriya. Oltre alla mancata consultazione e partecipazione popolare, la scelta del sito si macchiò anche di mancanza di trasparenza, in quanto non sono mai stati rivelati i criteri con cui il Governo Berlusconi scelse Scanzano Jonico, con la possibilità di imporre il sito al territorio anche con l’ausilio dell’Esercito.
Le pratiche di resistenza contro questa scelta dal Governo che vennero messe in atto operarono su due livelli, sia attraverso le azioni istituzionali dei politici locali e degli enti non governativi, sia più vistosamente, attraverso una vasta mobilitazione a livello popolare. Nei quindici giorni della protesta, accompagnata dalla diffusa solidarietà e partecipazione degli abitanti delle regioni limitrofe, migliaia e migliaia di persone parteciparono ai blocchi stradali, alle manifestazioni, ai comizi, occupando il sito prescelto e una stazione ferroviaria, raggiungendo così l’apice nella storica “Marcia dei 100 mila” del 23 novembre 2003.
La protesta venne ampiamente riconosciuta per la sua grande compostezza e civicness, anche da coloro che sostenevano le posizioni del Governo.
Si costituì un movimento esteso che attraversava tutti gli assi di differenza: genere, generazione, appartenenza politica, ceto, località. Il popolo, in sintonia con tutte le istituzioni locali, riuscì a organizzarsi, ad agire e a far valere le proprie istanze. Partita come azione difensiva del territorio, la rivolta di Scanzano si rivelò fortemente caratterizzata dalla rivendicazione del diritto alla partecipazione nei processi decisionali che riguardano il territorio. Grazie a queste azioni, il Governo di centrodestra fu costretto a tornare indietro sui suoi passi, Scanzano vinse, vinsero i cittadini, gli amministratori locali e le forze ambientaliste.
Ora, alla luce di questi fatti, è evidente come il plateale fallimento del Governo Berlusconi ha messo unicamente in evidenza l’arroganza del potere che pensa di poter imporre decisioni senza alcuna partecipazione e spiegazione e tuttavia, questo modo di fare, ha lasciato ancora irrisolto il problema dello stoccaggio definitivo dei rifiuti radioattivi.
L’Unione Europea prevede all’articolo 4 della Direttiva Euratom 2011/70 che la sistemazione definitiva dei rifiuti radioattivi avvenga nello Stato membro in cui sono stati generati. La maggior parte dei Paesi europei si è dotata o si sta dotando di depositi per mettere in sicurezza i propri rifiuti a molto bassa e bassa attività. Per sistemare definitivamente i rifiuti a media e alta attività, alcuni Paesi europei tra cui l'Italia, hanno la possibilità di studiare la localizzazione di un deposito profondo (geologico) comune in Europa, allo scopo di fruire dei potenziali vantaggi di una soluzione ottimizzata in termini di quantità di rifiuti, costi e tempi di realizzazione, così come prospettato dalla Direttiva EURATOM 2011/70.
A tal riguardo segnalo che nel primo semestre del 2018 la Commissione Europea ha avviato la procedura di infrazione n. 2018/2021 sulla non corretta trasposizione alla direttiva 2011/70/EURATOM circa la gestione responsabile e sicura del combustibile nucleare esaurito e dei rifiuti radioattivi.
Tutti i paesi dell’Ue hanno l’obbligo di elaborare e attuare programmi nazionali per la gestione di tutto il combustibile nucleare esaurito e dei rifiuti radioattivi generati sul loro territorio, dalla generazione allo smaltimento.
Gli Stati membri erano tenuti a recepire la direttiva entro il 23 agosto 2013 e a notificare i loro programmi nazionali per la prima volta alla Commissione entro il 23 agosto 2015. Tale direttiva è stata recepita in Italia con il decreto legislativo 4 marzo 2014, n. 45, in attuazione degli articoli 7 e 8 del decreto legislativo 4 marzo 2014, n. 45, il Ministero dello sviluppo economico e il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare hanno congiuntamente predisposto un Programma nazionale che contiene una panoramica programmatica della politica italiana di gestione dei rifiuti radioattivi e del combustibile nucleare esaurito. Il procedimento è stato assoggettato alla VAS, conclusasi il 18 dicembre 2018, essa è consultabile sul portale del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare.
A conclusione del procedimento amministrativo di cui all’articolo 7, comma 1 del Decreto Legislativo 4 marzo 2014, n. 45, in data 30 ottobre 2019, il Programma nazionale per la gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi è stato approvato con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, sentiti il Ministro della salute, la Conferenza unificata e l’Ispettorato Nazionale per la Sicurezza Nucleare e la Radioprotezione (ISIN).
Il Deposito Nazionale, previsto dall’art. 27 del d.lgs. 31/2010 è necessario per smaltire i rifiuti radioattivi a molto bassa e bassa attività, attualmente stoccati in depositi temporanei, presenti nei siti degli impianti nucleari disattivati, dove Sogin sta portando avanti le attività di mantenimento in sicurezza e decommissioning. Nel Deposito Nazionale confluiranno anche i rifiuti attualmente stoccati in depositi temporanei non gestiti da Sogin, che provengono da fonte non energetica, ossia quelli derivanti dalla ricerca, dall’industria e dalla medicina nucleare, che continuano inevitabilmente ad essere prodotti anche in Italia. Oggi, al contrario di quanto accade all’estero, non esiste ancora in Italia una struttura centralizzata in cui sistemare in modo definitivo i rifiuti radioattivi. La sua disponibilità permetterà di smaltire definitivamente tutti i rifiuti radioattivi italiani e di completare il decommissioning degli impianti nucleari così da poter restituire i siti che li ospitano privi di vincoli radiologici.
La realizzazione del Deposito Nazionale non solo consentirà all'Italia di allinearsi a quei Paesi che da tempo hanno in esercizio sul proprio territorio depositi analoghi, o che li stanno costruendo, rispettando così gli impegni etico-politici nei confronti dell’Unione Europea, ma anche di valorizzare a livello internazionale il know-how acquisito.
Il progetto infatti comprende anche la realizzazione di un Parco Tecnologico, le cui attività, tra le altre cose, stimoleranno la ricerca e l'innovazione nei settori dello smantellamento degli impianti nucleari e della gestione dei rifiuti radioattivi, creando nuove opportunità per professionalità di eccellenza.
Il deposito viene localizzato da una articolata procedura attraverso una CNAPI (Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee). La Cnapi si basa su criteri elaborati dall’ente di controllo ISPRA (oggi ISIN) nella Guida Tecnica n. 29, in linea con gli standard della IAEA (International Atomic Energy Agency), con osservazioni da parte di Enea, IGV e CNR.
A differenza di quanto avvenuto a Scanzano Jonico è importante sottolineare che i criteri sono stati stabiliti in maniera trasparente e con scelte tecniche riconosciute a livello internazionale e non con parametri di carattere politico. Rappresentano un insieme di requisiti fondamentali e di elementi di valutazione per arrivare, con un livello di dettaglio progressivo, all’individuazione delle aree potenzialmente idonee a ospitare il Deposito Nazionale.
I criteri sono stati formulati per individuare aree dove sia garantita l’integrità e la sicurezza nel tempo del Deposito Nazionale.
I criteri elaborati dall’Ente di controllo sono suddivisi in:
L’applicazione dei Criteri di Esclusione è stata effettuata attraverso verifiche basate su normative, dati e conoscenze tecniche disponibili per l’intero territorio nazionale, anche mediante l’utilizzo dei GIS-Sistemi Informativi Geografici e, in alcuni casi, di banche dati gestite da enti pubblici. L’applicazione dei Criteri di Approfondimento è effettuata, invece, attraverso indagini e valutazioni specifiche sulle aree risultate non escluse. La procedura prevede che, a seguito della validazione da parte dell’ente di controllo ISIN e del successivo nulla osta dal Ministero dello Sviluppo Economico e dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Sogin pubblichi la proposta di CNAPI, Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee, insieme al Progetto Preliminare del Deposito Nazionale e Parco Tecnologico e alla relativa documentazione. La CNAPI è stata elaborata già dal 2015 ma è rimasta secretata per tutti questi anni fino alla desecretazione, richiesta a gran voce dalle associazioni ambientaliste, con nulla osta che con grande coraggio è stato finalmente rilasciato dai Ministri Patuanelli e Costa il 30 dicembre 2020 e pubblicata sul sito della Sogin il 5 gennaio 2021.
La CNAPI comprende 67 aree, con idoneità differenti, dislocate nelle regioni Piemonte (8 zone), Toscana e Lazio (24 zone), Basilicata e Puglia (17 zone), Sardegna (14 aree), Sicilia (4 aree).
Di queste, risultano 12 aree in classe A1 (molto buone), 11 aree in classe A2 (buone), 15 aree in classe B (insulari) e 29 aree in classe C (zona sismica 2); le aree in classe A1, ossia con la massima idoneità, sono ubicate: 5 in provincia di Alessandria, 5 in provincia di Viterbo e 2 in provincia di Torino.
La proposta di CNAPI, con l’ordine di idoneità delle aree identificate sulla base delle caratteristiche tecniche e socio-ambientali, il progetto preliminare e la relativa documentazione, è sottoposta a una consultazione pubblica.
Nei 60 giorni successivi alla pubblicazione le Regioni, gli enti locali e i soggetti portatori di interessi qualificati, possono formulare osservazioni e proposte tecniche in forma scritta e non anonima. Entro 120 giorni dall’avvio della consultazione pubblica, Sogin promuove il Seminario Nazionale al quale sono invitati a partecipare i portatori di interesse qualificati per approfondire tutti gli aspetti tecnici relativi al Deposito Nazionale e Parco Tecnologico e la rispondenza delle aree individuate ai requisiti della Guida Tecnica n. 29 emessa dall’ente di controllo ISPRA (oggi ISIN).
Saranno inoltre approfonditi gli aspetti connessi alla sicurezza dei lavoratori, della popolazione e dell’ambiente e i possibili benefici economici e di sviluppo territoriale connessi alla realizzazione dell’opera. Dopo il Seminario Nazionale, Sogin raccoglie le ulteriori osservazioni trasmesse formalmente e redige la proposta di CNAI, Carta Nazionale delle Aree Idonee, che viene nuovamente sottoposta ai pareri del Ministro dello Sviluppo Economico, dell’ente di controllo ISIN, del Ministro dell’Ambiente, della Tutela del Territorio e del Mare e del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti. In base a questi pareri, il Ministero dello Sviluppo Economico convalida la versione definitiva della CNAI, che è quindi il risultato dell’integrazione nella CNAPI dei contributi emersi e concordati nelle diverse fasi della Consultazione Pubblica.
Anche se il metodo è profondamente diverso da quello adottato a Scanzano Jonico prevedendo trasparenza e partecipazione, occorre comunque rilevare in questa sede che i tempi sia per le osservazioni e il seminario che per le successive osservazioni a esso, stabiliti dal legislatore nel 2010 (Governi Berlusconi) e nelle successive modifiche, appaiano troppo stretti, vista la complessità della documentazione e degli studi da affrontare, e sebbene la tecnologia possa favorire il confronto anche in via telematica rilevo comunque insufficienti i tempi per permettere agli Enti locali di approfondire il tema in maniera adeguata.
Inoltre un’altra criticità è rinvenibile nella parte che riguarda la “partecipazione alle osservazioni”, essa appare ridotta: nella fase di consultazione pre-seminario si apre soltanto ai soggetti con un legittimo interesse, oltre che agli Enti locali e regioni, mentre nella fase post-seminario si apre solo agli Enti locali, alle regioni e università, lasciando esclusi tutti gli altri.
Ravviso inoltre che il legislatore non ha pensato, al tempo, di informare il Parlamento sugli aggiornamenti della procedura e non ha previsto misure specifiche, oltre a quelle ordinarie, per verificare il puntuale rispetto delle prescrizioni che verranno impartite in sede di VIA.
Inoltre è assente la previsione di possibili ricadute in ambito sanitario con una Valutazione d’Impatto Sanitario apposita.
In ultimo, appare molto importante coinvolgere maggiormente le università che sono tra i pochi soggetti a detenere le conoscenze e gli strumenti per poter effettuare un approfondimento che non lasci spazio ad alcun dubbio concreto sulla localizzazione finale del sito dove verrà costruito il deposito nazionale di rifiuti radioattivi.
Come Movimento 5 Stelle ci impegniamo attraverso il Parlamento sovrano a migliorare l’attuale normativa, che ricordo risale fin dai tempi del Governo di centrodestra del 2010 e poi modificata successivamente con i Governi di centrosinistra.
Infine sono circa una trentina i decreti che dovranno essere adottati e che sono previsti dal D.lgs. 101/2020. A titolo esemplificativo: Artt. 10 e 12 su Radon, art. 30 su lavorazioni minerarie, art. 37 e 49 su sorgenti di radiazioni ionizzanti, ma soprattutto 129 su esperti in radioprotezione, art.130 su medici autorizzati, art.146 su lavoratori esposti alle radiazioni e infine art. 237 sul trasporto dei materiali radioattivi.
Non può mancare disciplina tecnica di dettaglio sulla gestione del nucleare: su questo esorto il Governo a emanarlo il prima possibile.
Di fronte a questa tema legato ai rifiuti radioattivi, auspico la massima collaborazione da parte di tutte le forze politiche senza alcuna distinzione e soprattutto nessuna speculazione politica basata su false notizie come purtroppo ne abbiamo sentite in questi giorni. Il M5S c’è e se il resto del Parlamento concorderà presenteremo alcune nostre proposte con la mozione che oggi iniziamo a discutere.
Oggi tutti celebrano Falcone e Borsellino come eroi, ma ancora oggi i magistrati antimafia vengono troppo spesso lasciati soli a combattere contro la criminalità organizzata e a volte, ancora oggi, ricevono attacchi da parte di politicanti e scribacchini.
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